IL CASUS GIBO

di Luigi Borgo

Uno sguardo, rapido, alle Pleiadi – quelle che Umberto Saba avrebbe chiamato con poetica familiarità le “gallinelle” del musicale “pollaio” – dell’arte del ferro degli ultimi cent’anni, prima d’iniziare a scrivere di Gibo (Angelo Gilberto Perlotto) va dato: chi sono i sette o forse più artisti che, usando il ferro, hanno lasciato un segno nell’arte contemporanea? Dove s’inscrive la loro opera fabbrile tra le tante poetiche del nostro tempo? E poi il ferro, materia così antica ma anche così fortemente espressione sia della guerra, in specie della Prima guerra mondiale, sia del mondo industriale, che significato ha assunto tra i tanti, forse tutti, materiali a cui sono ricorsi gli artisti del Novecento e di oggi?
Rapidissimamente gli artisti del Novecento che hanno usato in modo significativo e ripetuto il ferro per le loro opere sono: gli statunitensi David Smith (1906- 1965) e Richard Serra (1938), lo spagnolo Julio Gonzales (1876-1942), lo svizzero Jean Tinguely (1925-1991), il francese Pierre Fernandez Arman (1928-2005), l’inglese Antony Caro (1924-2013) e gli italiani Ettore Colla (1896-1968), Berto Lardera (1911-1989), Toni Benetton (1910-1996), Pietro Consagra (1920-2005), Angelo Bozzola (1921-2010), Pino Castagna (1932-2017), Eliseo Mattiacci (1940). Pur nell’originalità e anche in un certo isolamento dei loro percorsi artistici, più o meno tutti hanno condiviso sul ferro tre ragioni di scelta: la prima, “la poetica del rottame”, del frammento di vita abbandonato come testimonianza di un recente drammatico passato: “il mio primo incontro con i rottami di ferro”, scrive Ettore Colla, “è avvenuto subito dopo la guerra, nei luoghi dove si è combattuto… mi sono trovato di fronte al drammatico e fascinoso spettacolo dei materiali dilaniati, aggrovigliati, contorti… un mondo dissepolto, disgregato, aperto alla più gelida verità…”; la seconda ragione, il ferro come “scelta povera e libera”, in opposizione al costoso e retorico marmo, sovraccarico di quella Storia, accusata da Nietzsche, nella Seconda Inattuale, di essere peso inutile e laccio limitante, ricatto e condizionamento continuo per l’uomo nuovo, libero e creativo; terza, “la scelta materica” quale calata nel profondo, nell’autentico, nel Vero: in quella “materia”, appunto, sentita come “mater” del mondo. E con il ferro hanno prodotto opere ascrivibili ora al canone dell’astratto geometrico, come i grandi macchinari immaginifici, simbolici totem dell’età della macchina, oppure, è il caso di Richard Serra installazioni di grandi strutture geometriche o, come Benetton, Bozzola e Castagna, di monumentali sculture ambientali; ora al canone dell’informale con opere evocanti figure vagamente antropomorfiche. In tutti i casi, comunque, nella querelle novecentesca e italianissima tra astratto e figurativo, gli artisti del ferro sono ascrivibili inequivocabilmente all’astrattismo.
Questo è il primo punto: l’arte fabbrile del Novecento che Gibo vede nelle esposizioni e studia nei cataloghi è arte astratta. Le Pleiadi del ferro emettono quel tipo preciso di suggestione.
Se questo è quanto avviene “fuori”, nel mondo dell’arte, ben codificato dal suo celebre e funzionante “Sistema”, c’è anche un cielo familiare, “nostrum”, di artisti del ferro, con altre stelle luminose e importanti attorno a Gibo: il bisnonno Antonio Lora (1835-1922), il nonno Angelo Perlotto (1884-1962), lo zio Tito (1918-2008) e il padre Germano (1928-1991). Una dinastia di fabbri lunga ben più di un secolo, cui Gibo sente fortissimamente di appartenere. Sa, come egli dice, di avere “quello stesso demone dentro”. In più occasioni ha ribadito il suo orgoglio nel dare seguito all’arte dei Perlotto, senza tuttavia nascondersi la fatica e la responsabilità di continuare una storia importante iniziata da altri tanto tempo prima.
Perché quella dei Lora-Perlotto è una delle storie di maestri fabbrili più significative d’Italia, cominciata nella bottega di Antonio nella Trissino bassa, poi proseguita nel laboratorio di Angelo, che poi diverrà quello di Germano e che oggi è di Gibo, e in quello di Tito, nella città alta di fronte alla monumentale entrata di Villa Trissino-Marzotto realizzata da Francesco Muttoni con la maestosa cancellata settecentesca di Girolamo Frigimelica.
Tra le innumerevoli opere di Antonio Lora vanno ricordate: il grande Grifo, realizzato tra il 1870 e il 1872; la cappella funeraria di Antonio Tomba, il valdagnese che fece fortuna in Argentina e che, ammalatosi, volle tornare nella sua Valdagno per esservi sepolto ma, essendo deceduto nel corso dell’attraversata atlantica, solo il suo cuore fu posto nella cappella in ferro e bronzo che Antonio aveva realizza- to per lui; e poi il grande Arcangelo in ferro e rame del campanile di Trissino, alto 7 metri e 15 con un’apertura alare di 3 metri e 60, realizzato nel 1903 con la funzione anche di anemometro. Di Angelo, rilevanti sono le figure forgiate di Villa Rossato a Cornedo del 1928; la cancellata all’interno del Duomo di Valdagno del 1930, compiuta con decori di fiori e di grandi foglie; le opere in ferro ed argento cesellato della grotta di Lourdes di Chiampo e di Zimella. Di Tito, invece, le inferriate del 1960 con inscritti i profili di animali del bosco, i battisteri in rame sbalzato finemente cesellati presenti in varie chiese del Veneto (Monteviale, Gambellara, Negrar, Alte Ceccato…), il maestoso portale in bronzo della chiesa del Maglio di Sopra di Valdagno del 2001.
Di Germano la realizzazione delle gran- di inferriate di protezione delle varie sedi della Banca Popolare di Vicenza, (Trissino, Cornedo, Vicenza) e le opere in ferro di arte sacra che adornano le chiese di Trissino, Castelfranco Veneto, Montorso.
L’arte di Antonio è la cesellatura: le sue opere sono imponenti ma leggere; le figure che egli riproduce, fantastiche come il Grifo, sembrano colte nell’atto di muoversi. Invero l’Arcangelo, essendo un anemometro, si muove di fatto. Sono opere ascrivibili al realismo magico del primo Novecento per la perfezione tecnica con la quale egli rende credibili e convincenti le sue visioni oniriche. L’arte di Angelo è la forgiatura: il ferro piegato nel fuoco. Le sue opere sono forti, ornate, ricche, massicce, mentre l’arte di Tito è il disegno e l’esattezza della battitura: le sue opere hanno una linearità e una pulizia esemplare che ritroviamo anche come tratto distintivo delle opere di Germano.
Questo è il secondo punto da tener presente. Gibo nasce tra fabbri-artisti importanti. Inoltre delle opere citate di Antonio Lora, ovvero il Grifo, la Cappella Tomba, l’Arcangelo di Trissino, lui sarà il restauratore. Il ferro dei Lora Perlotto non solo gli sta attorno negli spazi e negli utensili ereditati, ma diventa parte di lui, perché Gibo letteralmente vi entra dentro, come nel caso del grande Arcangelo, che al suo interno può accogliere un uomo. Sono restauri, questi, data la mole e la complessità delle opere, che durano anni. Che lo impegnano in una ricostruzione puntuale di tanti pezzi irrimediabilmente corrosi dal tempo. Scrive: “la realizzazione di questi restauri mi ha concesso di sfiorare con mano e sentire col cuore emozioni straordinarie. Mi ha insegnato a riconoscere il sottile confine tra il saper fare e l’arte. Le opere di mio bisnonno Antonio trasmettono l’energia vitale dell’Artista che le ha prodotte”.
Quindi il mondo del ferro di Gibo ha questi due “cieli” distinti: quello degli studi e delle ricerche sul contemporaneo che lo portano a conoscere le possibilità “astratte” del ferro e quello dell’appartenenza a un’antica famiglia di fabbri; da un lato, cioè, Gibo acquisisce i nuovi linguaggi dell’arte fabbrile, dall’altro compie la discesa nel profondo, attraverso i restauri delle opere del bisnonno, attraverso l’uso quotidiano di quegli spazi in cui forgiarono prima suo nonno e poi suo padre. Astrattismo e realismo magico; macchinari proto o post industriali e mitologici grifi; figure antropomorfe e arcangeli; installazioni di strutture geometriche e cancelli, cappelle battesimali, monumenti funebri con motivi floreali: il mondo di Gibo è tutto il mondo del ferro.
E lui? Gibo ha avuto la forza artistica di segnare un percorso e un discorso nuovo, potente e necessario. Dal carattere definito, proprio del vero artista. È stato scritto che le sue opere appartengono al genere iperrealista. L’iperrealismo è stato una corrente artistica in voga negli anni ’70 negli Stati Uniti, centrata sulla sfida pittura versus fotografia nella rappresentazione oggettiva della realtà. Gli artisti iperrealisti volevano dimostrare che l’occhio umano sa cogliere le stesse cose dell’obbiettivo fotografico; che l’uomo sa eguagliarsi alla macchina. Anche nella scultura l’iperrealismo ha avuto un certo seguito con riproduzioni accuratissime da “museo delle cere”. Si pensi ad arti- sti come Duane Hanson e John De Andrea che hanno rappresentato l’America dei frequentatori di fast-food, dei poliziotti all’angolo, dei turisti del “tutto compreso” attraverso riproduzioni tridimensionali perfette. Ma l’iperrealismo di Gibo è una cosa ancora diversa: esso non origina da una foto proiettata sulla tela per essere poi dipinta, né da uno sviluppo tridimensionale della foto perché diventi scultura. Né poi Gibo usa materiali che non siano ferro. Ovvero nelle sculture iperrealiste degli anni ’80 la sagoma veniva vestita con abiti veri che la completavano. L’arte ricorreva a ciò che in origine non era arte. In Gibo questo non accade. È sempre il ferro che diventa all’occhio dell’uomo materia altra da sé. Dovremmo, quindi, cambiare il nome del canone delle opere di Gibo in “iperrealismo puro”, dove non c’è un corrispettivo all’origine dell’opera d’arte che faccia da modello. La scultura nasce da un abbozzo su carta, quindi da un’idea, da un’intuizione dell’artista che ha la forza immaginativa e realizzativa di creare una scultura perfetta al punto che essa sia confondibile per quel dato oggetto che già conosciamo, di cui, tuttavia, non esiste una copia nella realtà.
Vedendo la “carèga de paja”, la riconosciamo subito come tale, ma quella “carèga de paja” è di ferro e non esiste nessuna “carèga de paja” che possa definirsi copia di quella di ferro, perché questa origina dalla mente di Gibo e noi la riconosciamo come tale solo perché essa già esiste nella nostra memoria.
Gibo sembra allora voglia, attraverso le sue sculture, tirar fuori dalla nostra memoria ciò che stiamo dimenticando: il tabàro e le sgàlmare; il cappello e l’ombrèla; la carèga e la mònega; la fionda e il bigòlo; il fiasco, la scudéla e il tajapàn; le uova e la fetta di salame; la vecchia e malconcia chitarra… oggetti dal nome dialettale, appartenenti a quel mondo contadino veneto che non c’è più. Sostituito da questa, sì, bovina modernità.
“Dic nobis Maria: quid vidisti in vita?/ Ho visto trionfare le cose puttane, emarginarsi le vere”. (Zanzotto, La Pasqua a Pieve di Soligo). Gli oggetti “dialettali” di Gibo fanno eco alle poesie di Zanzotto. Sono parole-oggetti di resistenza nella lotta contro una modernità che tutto appiattisce; poesie e sculture di ribellione a un presente, come si è detto, “liquido”, che non sa esprimere valori solidi e durevoli. Nel dialetto e nei suoi oggetti, invece, vi sono ancora minuscole presenze delle nostre originarie potenzialità creative. La “carèga de paja” di Gibo racconta la fine di un mondo, della sua cultura e dei suoi riti, la trasformazione antropologica che tutti abbiamo subito, ma anche ci ricorda i valori della nostra storia attraverso la quale possiamo ancora salvarci.
Non si tratta, tuttavia, di una semplice rievocazione di un passato, povero ma autentico, che abbiamo perduto. Certo c’è anche un po’ di nostalgia, soprattutto se si coglie quella vocazione narrativa che le sue opere pur hanno: “il tabàro polveroso di fierezza con le pieghe dei dolori da nascondere nel silenzio; la sedia della spossatezza alla fine del giorno; la sgàlmare per il camminare rassegnato della miseria, la valigia con le lacrime degli emigranti…”, come ha scritto Bepi De Marzi; una narratività che diventa ancora più marcata nelle opere composte da più elementi: il libro avvolto nel filo spinato, per esempio, evoca in modo fin troppo diretto la sofferenza della guerra vissuta sui monti della sua terra, ma, dicevamo, il discorso artistico di Gibo va ben oltre.
Il suo iperrealismo puro se è “dialettale”, ma potremmo chiamarlo anche “primitivo”, nella scelta dei “temi” e nella “volontà di dire”, per usare l’espressione dantesca, ciò che nel profondo ancora siamo, è attualissimo e “globale” nel denunciare e nel rifiutare la superficialità astorica del nostro presente.
(Quando si ascoltava Zanzotto parlare, si rimaneva colpiti della sua forte cadenza veneta; quando Gibo parla di arte, lo fa sempre usando il dialetto. Perché, sembra sia il pensiero sottointeso da entrambi, il dialetto non è la lingua dei palazzi della politica, dell’accademia, dei tribunali, dei giornali, delle chiese; né in dialetto si scrivono email o sms, né si fa amicizia su Facebook o si comunica su Instagram. Il dialetto è una lingua altra: è la loro/nostra lingua segreta del Vero, e come tale, della poesia e dell’arte).
Con i “libri”, che appartengono anch’essi a un mondo antico, ma non rurale, Gibo potenzia ulteriormente il suo grido di denuncia. Se, infatti, la grande sfida della contemporaneità tecnologica è quella fabbro contro i programmatori in 3D. Ciascuno dei libri che compongono “I dodici Apostoli” sono perfette cinquecentine senza corrispettivo in pergamena. Chi le osserva ne viene ingannato. Le prende in mano e solo dopo, per la loro pesantezza, si accorge che sono opere in ferro. Ma l’inganno è avvenuto. Com’era accaduto anche con la “sedia de paja”, con la “giacca”, con il “tegamino di uova”. Sorprendendoci, Gibo ci mette a nudo per sferzare il suo colpo durissimo. Com’è possibile non saper riconoscere un libro che di carta non è? “Quanto mona sei?” ti chiederebbero gli amici allo zanzottiano “Snack bar al Canton”. Quanto ignorante sei? Ecco l’accusa, dura e tragica: abbiamo visto tutto negli schermi dei nostri computer, ma non sappiamo più nemmeno distinguere la carta dal ferro.
È, esattamente, questa la misura della conoscenza oggi. Spavaldi riconosciamo immediatamente di che cosa si tratta e ne diciamo il nome, per accorgerci, stupiti, che non sappiamo nemmeno più nominare correttamente le cose che credevamo di conoscere. A questo punto il libro può rimanere chiuso, perché evidentemente noi non sappiamo più leggere, intus legere, e il libro infatti è chiuso. I libri di Gibo sono simboli dei non sapere del nostro tempo. Quelli che originano da Internet, dove possiamo essere istruiti su tutto, senza conoscere nulla, dove esistono amicizie o perfino amori tra persone che non si sono mai toccate. Crediamo di conoscere ma ciò che conosciamo è solo inganno. L’uomo al tempo del web ha visto tutto, ma conosce meno la realtà dell’uomo quando era contadino, questo ci dice Gibo.
Aggiungendo, però, che non è l’uomo a esser cambiato. L’uomo è sempre lo stesso, ha sempre la stessa curiosità per l’arte, per la scienza, per la vita; ha sempre infinite passioni che lo animano. È il mondo a esser cambiato. Il mondo che è diventato prima ipertecnologico e poi web. In un prossimo futuro, già si dice, saremo tutti cittadini di Google provvisoriamente domiciliati in qualche angolo del Pianeta. Il mondo non è più quello rurale di un tempo; nemmeno quello industriale di ieri, nemmeno quello terrestre di oggi.
Il mondo è cambiato, l’uomo no. L’uomo prova oggi la stessa curiosità e meraviglia ed emozione per il libro in ferro di Gibo che, millenni fa, ha vissuto davanti al mare, vicino al fuoco, sotto il cielo stellato. Non è l’uomo a essere cambiato, è il mondo che non è più lo stesso.
Mettendoci di fronte alla nostra ignoranza, Gibo ci invita a destarci. Riconoscendo, socraticamente, di non sapere, possiamo riprendere il cammino della conoscenza.
Allora dopo un primo momento di stupore per aver confuso un libro di ferro per una cinquecentina e un secondo momento in cui Gibo/Socrate ci mette a nudo davanti al falso sapere dei nostri tempi, ve n’è un terzo, definitivo ed edificante: il libro di ferro diventa tra le mani un lingotto, aureo, per il compimento di gioielli in forma di pensieri. Da quella materia, da quell’arte che chiama arte, sta a noi formulare parole che diventeranno pensieri. Se questo accadrà, saranno parole e pensieri di salvezza. E l’evangelizzazione sarà ancora.